L'intervista

Il vescovo della gente. Monsignor Cornacchia a cuore aperto

Pasquale Caputi e Antonio Aiello
Il vescovo della diocesi di Molfetta Monsignor Domenico Cornacchia
Tra Don Tonino e Papa Francesco, Natale e Pasqua, processioni e religiosità. Pensando soprattutto a giovani e bisognosi
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Sua Eccellenza, Domenico Cornacchia è vescovo della diocesi di Molfetta-Terlizzi-Giovinazzo-Ruvo. Ma per come vive la sua vicinanza con la comunità è semplicemente Don Mimmo. Con lui, Don Mimmo, abbiamo realizzato una lunga intervista. Tanti i temi sul tavolo: Natale e Pasqua, processioni e rapporto con i fedeli, Don Tonino e Papa Francesco. Sempre con il sorriso sulle labbra e la mano tesa. Don Mimmo, a due anni dalla nomina a vescovo, traccia un bilancio. E se torna talvolta indietro, ai tempi in cui frequentava il Seminario regionale, anche come guida spirituale, è al futuro che guarda. Strizzando l’occhio ovviamente al presente.

Don Mimmo, cominciamo da questo suo secondo Natale molfettese?
Prima vorrei portare nelle vostre case un cordiale saluto, un affettuoso abbraccio soprattutto a chi mi segue da lontano. Esprimo i migliori auguri per il 2018 e spero che sia un anno ricco di serenità. L’ultimo segmento del 2017 è stato caratterizzato da un mese molto intenso, di richieste, domande, auguri. Sono entrato nelle scuole e sono andato nelle case di cura di Molfetta e Terlizzi, nelle case di riposo di Giovinazzo. Ho incontrato bambini e ragazzi, visto presepi viventi.

Cosa ha significato per lei?
Pastoralmente parlando, per un vescovo questo è arare il proprio campo, preparare il terreno per le semina. Sono qui non tanto per il racconto, quanto per la semina. È la stagione in cui dobbiamo coltivare. Se il Signore vorrà, vedremo i frutti.

Che rapporto ha creato con Molfetta in tutti questi mesi?
Sono pastore di questo gregge e, come in una famiglia il padre diventa automaticamente punto di riferimento per i figli, avverto il peso delle responsabilità. Con i molfettesi c’è un rapporto di estrema fiducia, ma questo costa molto lavoro. Nessuno regala benevolenza e nessuno sottoscrive a cuor leggero un’adesione. Vivere il rapporto di empatia, di estrema fiducia con laici ed ecclesiastici richiede tanti sacrifici.

Che tipo di sacrifici?
Da quel giorno di 42 anni fa, in cui ho deciso di donare la vita al Signore, volta per volta, lui si fa trovare sempre: ora qua, ora là, perché io gli faccia dono della mia vita. Questo è servire il popolo e la comunità. Parliamo di un insieme di credenti e non, motivati o meno sotto l’aspetto della fede. Mi aspettano credenti e reticenti, alla ricerca di una luce interiore, e devo cercare di captare bisogni, necessità e interrogativi, per fornire a tutti un raggio di luce, una mano amica.

Ricorda qualche aneddoto speciale di questi due anni?
Tempo fa ho ricevuto un biglietto da una persona che ha sentito il bisogno di ringraziarmi. Mi ha ricordato un episodio in cui lei aveva avuto in braccio il figlio malato e si era sentita cambiata dentro quando durante una processione mi ero avvicinato al bambino, l’avevo accarezzato e gli avevo dato la benedizione. Mi ha portato un piccolo dono, in una confezione molto semplice. Mi ha toccato il cuore.

Piccoli gesti, che a volte fanno la differenza.
Spesso uno è superficiale, dozzinale, freddo. Invece può lasciare una traccia indelebile in chi non aspetta altro. Altri episodi riguardano le visite ai bambini senza genitori. Io che sono stato orfano, prima di papà poi di mamma, capisco cosa sia la mancanza di un genitore. Dico grazie al Signore perché mi dà la forza di dare peso a questi gesti. Il cuore me lo comanda.

Se le diciamo Don Tonino, cosa pensa?
In una delle prime interviste a Lucera, quando mi chiesero se i miei predecessori mi facessero ombra, risposi che non è per nulla così: io lo vedo come un dono speciale. Un vento favorevole, che mi spinge, mi solleva, mi eleva. Il vento porta via la foschia, la paura, i sentimenti di non farcela. Il pensiero che sia successore di Don Tonino mi aiuta. Trascorro molto tempo ogni giorno nella cappellina in cui ha pregato, scriveva i suoi interventi. È una grazia di Dio, mi fa continuare a tracciare questo solco che un altro ha aperto. Mi sento infinitamente distante da quest’uomo ma non ne soffro. Sant’Agostino diceva che quando ti viene conferito un incarico e non ti senti abbastanza adatto, occorre cercare di diventarlo.

Per il 25esimo anniversario della morte di don Tonino, ha chiesto al Papa di venire a Molfetta.
Siamo in attesa di una sua risposta. Ho fatto un esplicito invito a sua santità Papa Francesco a visitare questa chiesa. Il Papa conosce indirettamente stile e linguaggio di don Tonino. Almeno un paio di volte ha riportato sue frasi. Che venga o meno il Papa, sto dando molta importanza alla stanza in cui è vissuto don Tonino. Lì c’è un bellissimo poster con una frase: “spalanchiamo le nostre chiese”. Ovvero non giudichiamo ma prendiamo sotto braccio il mondo. È quello che vorrei fare. A me piace essere persona dell’essenziale. La coreografia è avulsa dal mio gergo, dalla mia vita, anche se le modalità e i mezzi di porgere un messaggio sono parti integranti del contenuto.

È fiducioso che il Papa possa esserci?
Ci spero. Non sarà a ogni modo durante la visita a San Giovanni Rotondo. Ma aspettiamo con fiducia. Sono certo che guarda a questi uomini, come Padre Pio, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari. Uomini che ci spingono verso le periferie umane.

Sarebbe un bel regalo per la comunità.
La nostra diocesi è felice e fortunata. Abbiamo un retroterra consolidato, la presenza del seminario regionale lo conferma. È l’ente massimo per la formazione dei futuri presbiteri. Nella realtà diocesana le famiglie, i giovani, gli adolescenti spero riscoprano la dimensione della gioia, dell’accoglienza, del servizio.

Questi mesi sono invece di preparazione alla Pasqua. Come devono viverla i fedeli?
Andiamo verso il sinodo mondiale a ottobre sul tema dei giovani. Vorrei mettere in relazione l’evento del XXV della morte di don Tonino con la realtà giovanile. I giovani mi stanno a cuore, abbiamo camminato insieme, soffro e gioisco con loro. Desidero che questo tempo sia un tempo di riflessione, di accompagnamento, di lettura dei bisogni dei giovani.

Giovani ma anche bisognosi.
A novembre, in occasione del giorno del povero, abbiamo aperto un centro di ascolto in piazza Municipio, in una sede molto bella che si affaccia sul mare. Potevamo farne un bed and breakfast, per esempio, ma ho voluto che gli utenti del b&b fossero i poveri. Lì è sorta la nuova sede della Caritas cittadina: sei stanze. Gli ospiti si riuniscono, raccontano, fraternizzano. La condivisione dei guai è un atto di carità, di accoglienza, ascolto. Vogliamo infondere fiducia, trasmettere un gesto di speranza. Ciò che conta non è non cadere, ma avere la certezza che dal tunnel si possa uscire. Questo mi auguro in vista della Pasqua.

Cambierebbe qualcosa nella Pasqua molfettese?
La religiosità popolare è molto radicata nel costume della città. C’è gente che magari non va a messa a Pasqua ma che la processione dei Misteri deve vederla intera. Se questo è un non senso teologico? Dico che può essere riempito di contenuto. Tocca a noi far capire che quando si fa l’innesto di un albero da frutto, si prende selvatico. L’innesto buono si mette sul selvatico perché attecchisca di più e diventi più robusto l’albero. Ciò che nasce spontaneamente può essere portatore di linfa.

Cosa pensa delle processioni?
Sono prese con molta serietà e c’è un cerimoniale severo. Sono colpito dal modo con cui si vivono, non esiste da molte altre parti. Certo, vorrei che qualcosa potesse evolversi, per esempio a proposito della durata. Sarebbe bello, peraltro, che chi inizia la processione, restasse fino alla fine, senza lasciare il percorso. La processione è atto penitenziale, di fede. Dobbiamo essere bravi a fare in modo che non sia esibizione, ma esempio di carità e di preghiera, per prepararci al mistero della morte e resurrezione. Auspico una preparazione spirituale alla Pasqua. Le processioni possono durare anche di più, ma è lo spirito che conta. Sia preghiera silenziosa. Serve gerarchia in queste cose. Dobbiamo guardare al più attraverso il meno.

Una domanda di carattere sia generale che particolare. Non crede che oggi la chiesa debba vivere di più la comunità?
La dimensione da recuperare è quella umana, dell’approccio di prossimità. Un prete vero deve esserlo 24 ore al giorno. Mi chiedo: i nostri preti stanno 7-8 ore di fila in una comunità parrocchiale, come fa un comune lavoratore nel suo luogo di professione? Occorre zappare l’orto da una punta all’altra, andare nelle case, nelle scuole, nelle aziende.

domenica 21 Gennaio 2018

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